1935 – 1988 Roma (Italia)
Come i fratelli Otello e Omero, anche Giuseppe – il suo vero nome – prende il cognome dalla madre Erminia, alla quale, malata, il giovanissimo Franco provvede svolgendo vari lavori. Fra questi in particolare presso un tappezziere, dove apprende le tecniche di sagomatura e utilizzo dei tessuti e dei ritagli; tecniche che poi utilizzerà per i suoi lavori artistici.
Autodidatta, inizia a dipingere nel 1957, anno in cui parte per il servizio di leva; in questo periodo tramite la conoscenza dello scultore Edgardo Mannucci, incontra l’Arte Informale di Burri, la cui opera lo affascina e gli ispirerà le opere Catrami e E da una Ferita scaturì la Bellezza.
Iscrittosi al PCI, in sezione conosce sia Tano Festa che Mario Schifano; si allontana dal partito a seguito dell’invasione sovietica dell’Ungheria, avvicinandosi ai movimenti della sinistra extra parlamentare.
Alla fine degli anni ’50 espone per la prima volta in collettiva alla galleria La Salita di Roma, che ospiterà poi nel ’60 la sua prima personale con l’espressione di una particolare tecnica mista (pittura ad olio con garze, bende, calze di nylon) che illustrerà nl 1962 nel cortometraggio Inquietudine diretto da Mario Carbone.
E’ la violenza della realtà contemporanea che le opere di Angeli rappresentano, come ad esempio Tutti Cattivi i Tedeschi (O.A.S.), Cuba, 25 Luglio; quest’ultima a commemorazione della caduta del fascismo. Altro motivo d’ispirazione negli anni ’60 sono i frammenti capitolini, ovvero i simboli di una Roma eterna, sia antichi come lapidi e ruderi o la lupa romana, sia moderni quali la falce e martello o addirittura la svastica.
Sempre in quegli anni l’impegno politico di Angeli è testimoniato da una serie di dazebao fra i quali Compagno Vietnamita, Berlino ’45, Occupazione di un monumento Equestre. Dopo il ’68 manifesta conto la guerra del Vietnam, ha una relazione tormentata con Marina Ripa di Meana e fa un uso esagerato di droghe e alcool, entrando nel gruppo degli Artisti Maledetti della Scuola di Piazza del Popolo.
Abbraccia anche l’arte della fotografia, prevalentemente in bianco e nero e ritraendo in particolare la propria cerchia di amici, fra cui Tano Festa, Achille Bonito Oliva, Sandro Penna, Jannis Kounellis. Interpreta anche un film: Morire Gratis, del 1968.
L’impegno politico nell’arte continua con i paesaggi della serie Dagli Appennini alle Ande, ispirati dal colpo di stato militare in Cile, Compagni e Vietcong ed altre eseguite a seguito del golpe dei colonnelli in Grecia.
Nel 1975 si sposa e l’anno successivo nasce la figlia Maria. Nel 1978 partecipa alla Biennale di Venezia. Successivamente i suoi soggetti sono piazze deserte, guglie, capitelli e le marionette in forma di autoritratto, un tema ricorrente che è stato interpretato come un accompagnamento verso la morte, avvenuta a Roma nel 1988.
“Quando una persona ha un malessere profondo deve cercare un modo per non essere più sola; deve, in definitiva, trovarsi un interesse che l’accompagni per la vita” (Franco Angeli)
1915 Vera de Bidasoa (Spagna) – 1979 Fiesole
Figlio di un padre giornalista, è perennemente in viaggio con la famiglia, che nel 1925 si stabilisce in Svizzera, a Ginevra. Il suo talento si manifesta all’età di quindici anni, quando è già iscritto all’Accademia di Belle Arti.
Ritornato in Spagna insieme alla madre, segue privatamente corsi di pittura, frequentando nel contempo la Reale Accademia di Belle Arti di San Fernando.
A Parigi, ove si trasferisce nel 1937, espone i suoi lavori di temi del realismo spagnolo, di ispirazione classica echeggiante Velazquez, Goya, Murillo; le sue opere sono esposte anche a New York. L’anno successivo il fratello Antonio, anch’egli pittore, lo raggiunge a Parigi; è l’inizio di una collaborazione decennale fra i due fratelli.
Di nuovo trasferitosi nel ‘40, questa volta in Italia sempre con la madre ed il fratello Antonio, prolunga un soggiorno preventivato come temporaneo fino a farne la stabile residenza della famiglia.
Con Annigoni, Sciltian ed il fratello Antonio forma, nel 1947, un gruppo denominato Pittori Moderni della Realtà, in polemica con l’allora critica di stampo post-impressionista, proponendo un’arte “vera”, riproducente il più fedelmente possibile la natura. Il gruppo entra in crisi alla fine del decennio e anche le strade artistiche dei due fratelli Bueno si dividono.
La già manifestata propensione per un’arte politicamente impegnata si concretizza maggiormente nel 1953, quando Bueno aderisce con convinzione esplicita l’arte del socialismo reale. Altrettanto significativa di quegli anni è l’esperienza brasiliana del ’54, ove ritrae a china figure umane di giovani contadini e bambini, immoti in un’atmosfera piatta e irreale; il tema è quasi ripreso a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 con la serie Bambini, simbolo di oppressione e avvilimento dell’intero genere umano.
Dopo il viaggio in Brasile la tecnica di Xavier Bueno muta e viene definita affresco su tela, stante da parte del pittore sia un utilizzo di materie addensanti quali la sabbia, sia un utilizzo del collage anche in opere figurative, dopo averlo già sperimentato nelle nature morte.
Muore nel 1979 nella sua casa di Fiesole, sulla collina di Firenze.
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«Un’attenzione particolare meritano le nature morte di Bueno sollevate nello spazio senza fondo, in cui gli spessori sono creati dal ritmo degli oggetti, sottratti ad una assenza metafisica.» (Salvatore Quasimodo)
Ortona (Ch) 1892 – Milano 1989
Formatosi artisticamente sotto la guida del padre, tiene la sua prima mostra personale nel 1907 presso la Famiglia Artistica Milanese.
Negli anni successivi e fino alla Prima Guerra Mondiale – alla quale poi parteciperà – a Parigi allestisce una mostra presso la Galleria Druet e partecipa al Salon d’Automne, espone a Roma presso il Teatro dell’Opera,
collabora con il padre Basilio alla Grande Illustrazione Italiana con disegni e opere grafiche, esponendo anche a Milano.
Dopo la guerra, nel 1919, conosce Carlo Carrà, il quale lo aiuta a trasferire la sua mostra personale tenuta a Roma presso la Galleria Bragaglia nella Galleria Lidel di Milano, città dove l’anno successivo si trasferisce stabilmente. Qui frequenta il poeta Clemente Rebora, ispiratore di alcune sue opere.
Tra la fine degli anni ’20 viaggia in Italia e a Parigi, ottenendo qui nel 1937 la medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale. Tornato a Milano realizza le scenografie per l’opera lirica Margherita da Cortona, rappresentata alla Scala.
La Biennale di Venezia lo vede partecipe ininterrottamente dal 1928 al 1942 e nel 1948 avrà anche la sua sala personale.
Trasferitosi a Portofino alla fine degli anni ’30, si ispirerà in più tarda età all’incantevole località ligure per molte sue opere.
Negli anni ’50 realizza una quarantina di disegni per la Società Italiana di Ceramica di Laveno; la serie è intitolata l’Italia vista da Michele Cascella ed è utilizzata per la decorazione di pregiati servizi da tavola.
Nel dopoguerra espone a livello internazionale a Parigi, Buenos Aires, Montevideo e negli Stati Uniti, dove si trasferisce per un lungo periodo, alternandosi con l’Italia e in particolare nei pressi di Colle Val d’Elsa, in campagna.
I soggetti preferiti da Cascella sono i campi di grano, papaveri e fiori in genere, paesaggi d’Abruzzo e vedute di Portofino.
Il talento di colorista di Cascella è evidente fin dalle opere giovanili, quali Primavera presso Ortona, Figure sulla Pescara, Trabocco di San Vito, tra le più moderne del panorama artistico italiano contemporaneo.
Successivamente la sua produzione assume un valore simbolista, con sperimentazioni impressionistiche, come nelle opere La Giacca Rossa e Giallo e Verde del 1918.
La definizione di pittore paesaggista crepuscolare, in antitesi agli eccessi di un intellettualismo elitario non è riduttiva, anzi è a riprova dello stile personalissimo di Cascella, immune dalle correnti pittoriche avanguardiste del ‘900.
Le opere di Cascella, non solo pittoriche, ma comprendenti anche serigrafie, acqueforti, litografie e cromolitografie, sono esposte nei più prestigiosi musei in Italia e all’estero; tra questi il Victoria & Albert Museum di Londra, al Jeu de Paume di Parigi, il Musée d’Art Moderne a Bruxelles e alla galleria dell’Università di Santa Clara in California.
Di notevole importanza sono anche i suoi ritratti di donne, realizzati con raffinate tecniche prefuturiste.
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“Quando Michele Cascella decise di diventare artista, il padre Basilio, mostrandogli colori e pennelli, gli disse che avrebbe imparato cos’è la pittura il giorno in cui sarebbe stato capace di dipingere l’aria. Michele non se lo dimenticò mai, cercò sempre di raggiungere quell’obiettivo. Quando ci riuscì, da buon individualista, non lo disse a nessuno. Gli bastava la sua soddisfazione, intima, mai esibita. Io continuo a occuparmi di Michele Cascella perché la sua arte continui a vivere.” (da Saper dipingere l’aria, di Pier Paolo Cimatti).
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“Vituperato in vita perché troppo indulgente nei confronti della popolarità, perché troppo ‘commerciale’, come si diceva allora, Cascella si prende ora le sue rivincite. Diciannove anni dalla morte sarebbero bastati a spazzarlo via non solo dalla memoria dei critici, ma anche del grande pubblico. E invece, eccolo ancora fra noi, eccoci ancora ad occuparci di lui. Della sua arte intenzionalmente semplice, votata a individuare un’idea istintiva del bello, di quanto più larga condivisione possibile, quasi francescana nel concepire il senso della natura, un sermo communis per il quale una marina è sempre una marina e un fiore un fiore.” (Vittorio Sgarbi)
Egna (Bz) 1950
Autodidatta, la passione per la pittura e le arti figurative in genere lo portano a dedicarsi all’arte in modo professionale; la tecnica più utilizzata da Costazza è la pittura ad olio, ma sperimenta anche l’acquerello,il pastello e il carboncino.
I suoi Paesaggi rivelano la sua personalissima idea artistica, volta a sintetizzare gli elementi monti, case, persone, animali in un “unicum” reale ma magico, atemporale e quasi metafisico; le figure umane si fondono con il paesaggio, diventandone parte integrante.
L’essenzialità priva di fronzoli della sintesi volumetrica di Costazza rende l’artista sia tecnicamente sia tematicamente molto riconoscibile, vuoi anche per la silenziosa e a volte scostante espressività che riesce a infondere alle sue semplici figure ed agli animali.
Le sue opere sono state esposte sia in personale sia in collettiva in numerose gallerie del Trentino- Alto Adige, ma anche in altre città italiane fra cui Milano e Padova, ed all’estero, in particolare in Austria ad Innsbruck e Vienna.
Fondo (Tn) 1892 – Rovereto (Tn) 1960
Il poliedrico artista – fu pittore, scultore, scenografo, illustratore, designer e costumista – nasce a Fondo in Val di Non (Tn) nel 1892. Trasferitosi a Rovereto con la famiglia, frequenta l’istituto d’arte della Scuola Reale Elisabettina, fornace di molti artisti che saranno fra i protagonisti del ‘900 italiano.
Dopo un infruttuoso tentativo di iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Vienna, nel 1910 lavora come decoratore all’ Esposizione Internazionale di Torino; tornato a Rovereto e molto attratto dalla scultura, lavora presso un marmista locale, acquisendo quelle capacità che saranno poi presenti anche nella sua pittura “solida” e “volumetrica”.
Nel 1913 pubblica il libro di disegni, poesie e pensieri Spezzature e l’anno seguente espone a Roma, dove entra in contatto con i futuristi Balla e Marinetti. Divenuto allievo di Balla, scrive insieme a questi il manifesto Ricostruzione Futurista dell’Universo e portando poi avanti una ricerca volta a chiarire la relazione fra il Futurismo le correnti artistiche contemporanee.
Nel 1915 Depero parte per il fronte, partecipando al movimento irredentista, ma, ammalatosi, viene riformato; sono di questo periodo i suoi lavori a china sul tema della guerra, fra i quali Il Mitragliere.
Rientrato a Roma, oltre che alla pittura si dedica alla composizione di canzoni “rumoriste”, germoglio delle “liriche radiofoniche” del decennio successivo. Conosce intanto fra gli altri Picasso, aiutandolo nella realizzazione di costumi ed il poeta Clavel, per cui illustra il libro Un Istituto per Suicidi con disegni futuristi/espressionisti; sempre in collaborazione con Clavel realizza il teatro di marionette Balli Plastici, all’avanguardia sia per l’assenza di attori, sia per le musiche, composte fra gli altri da Bartok e Malipiero. Con la successiva creazione dei suoi arazzi futuristi di stoffe colorate porta l’esperienza teatrale nella sua arte, definendo così il suo personalissimo stile, riconoscibile per la costante presenza di pupazzi ed automi anche in pittura.
A partire del 1918, convinto che l’idea futurista debba arrivare alle persone, abbandona l’utopia di una ricostruzione futurista – con opere relegate nei musei – per dedicarsi all’arte applicata, ispirando la nascita delle Case d’Arte Futuriste; l’anno successivo apre la propria a Rovereto, producendo mobili, manifesti pubblicitari e complementi di arredo.
Negli anni ’20 si dedica alla pubblicità realizzando manifesti ed arazzi; partecipa a varie mostre e realizza i primi Panciotti Futuristi, che vengono indossati dai protagonisti del movimento. Nel 1927 inizia la collaborazione con la ditta Campari, a cui aveva dedicato il dipinto Squisito al Selz; pubblica la monografia Depero Futurista, nota anche come Libro Imbullonato. Il suo particolare punto di vista riguarda all’arte pubblicitaria sarà poi riassunto nel Manifesto dell’Arte Pubblicitaria.
Nel 1928 Depero si trasferisce con la moglie a New York, dove apre la Depero’s Futurist House; oltre ad esporre le sue opere, lavora in campo pubblicitario, per il teatro, per locali pubblici e realizza copertine per le più importanti riviste fra le quali The New Yorker, Vogue e Vanity Fair.
Nel 1930 Depero rientra in Italia, dove si confronta con il nuovo corso della corrente futurista, l’Aeropittura; da artista pragmatico qual è, non ne è affascinato e partecipa sempre con minor frequenza alle manifestazioni aereo-futuriste. Si emargina così progressivamente dal movimento diventando nel contempo una figura di riferimento per le sue idee originali. Lavora intensamente in campo pubblicitario per importanti committenti industriali, commerciali e politici; ritrova la vena creativa realizzando oggetti con il Buxus, sostitutivo del legno nel periodo autarchico del Fascismo, a cui aderisce anche per motivi di opportunità lavorativa.
Nel 1940 esce la sua Autobiografia e successivamente si ritira a Serrada di Folgaria (Tn), interrompendo anche l’esperienza della sua Casa d’Arte; nel 1947 rientra negli USA, dove però il Futurismo è malvisto in quanto ritenuto arte fascista.
Rientra in patria nel 1949 e, pur disilluso, continua a lavorare, pubblica un manifesto sull’ Arte Nucleare, decora e arreda la sala consigliare della Provincia Autonoma di Trento, pubblica l’ Antibiennale e nel 1957 inizia ad allestire la Galleria Museo Depero a Rovereto; la galleria apre l’anno prima della sua morte.
A partire dagli anni ’70 l’opera di Depero, prima osteggiata sia in quanto filo-fascista sia per l’appartenenza ad una corrente del Futurismo considerata minore, viene riconsiderata e rivalutata, tanto che ora il Mart di Rovereto ha riaperto la Casa d’Arte Futurista Depero quale sede museale e raccolto l’archivio dell’artista presso il proprio Archivio del ‘900.
1904 Khorkom (Armenia turca) – 1948 Sherman (Connecticut)
Nato in Armenia ai tempi della dominazione ottomana, si riunì al padre – già emigrato negli Usa nel 1908 per evitare il servizio di leva – nel 1920. La madre era già morta di stenti l’anno prima a Yerevan, in conseguenza del genocidio armeno iniziato nel 1915.
Per reinventarsi un’identità, cambiò il suo nome originale (Vostanik Manoug Adoian) in Arshile Gorky, pretendendo di essere un nobile georgiano e lontano parente dello scritto russo Maxim Gorky.
Nei primi anni ’20 frequentò la “New School of Design” di Boston dove ebbe la sua prima esperienza come insegnante part-time; successivamente e per più di 5 anni, insegnò presso la “Grand Central School of Art” di New York, fondata nel 1923 da Edmund Greacen.
Influenzato inizialmente dall’Impressionismo, dipinse successivamente quadri post-impressionisti, per poi arrivare al surrealismo passando anche per esperienze cubiste.
Acclamato come uno fra i più importanti pittori americani del XX secolo, ebbe un’influenza fondamentale sulla corrente dell’Espressionismo Astratto.
Fra le frequentazioni artistiche di Gorky si ricordano quelle con Mark Rothko, Jackson Pollock e Willem de Koonig. Nel 1940 Andrè Breton, dopo aver visionato i suoi più recenti dipinti ed in particolare “Ther Liver Is the Cock’s Comb”, che dichiarò essere uno dei più importanti dipinti mai prodotti in America, definì l’artista un surrealista.
Vita privata: dal matrimonio nacquero due figlie. A partire dal 1946 Gorky ebbe dei rovesci di fortuna e una serie di crisi: il suo studio bruciò, fu sottoposto a colostomia, la moglie ebbe una relazione con l’architetto e pittore cileno Roberto Matta, in un incidente d’auto si ruppe il collo e il braccio con il quale dipingeva rimase paralizzato. Infine, la moglie lo lasciò, portando con sé le figlie.
All’età di 44 anni, nel 1948, il pittore si impiccò a Sherman, in Connecticut, dove è sepolto.
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“Il pensiero è il seme dell’artista, i sogni le setole del suo pennello” (Arshile Gorky)
1891 Roma – 1984 Venezia
La passione per la geometria e il disegno lo portano a frequentare a Roma in età giovanile sia i corsi dell’Istituto Tecnico, sia quelli tenuti alla Scuola Libera di Pittura.
Abbandonato, nel 1908, l’Istituto Tecnico, apprende la pratica pittorica presso la bottega del decoratore Capranesi, dove rimarrà per quasi tre anni come suo primo aiutante.
Si iscrive poi all’Accademia di Belli Arti, sempre a Roma, studiando anche per proprio conto i grandi maestri italiani fra cui Giotto, Correggio, Piero della Francesca e i francesi Courbet e Chardin. È di questo periodo l’inizio di una riflessione sull’importanze della luce nei suoi quadri.
Nel 1913 espone le sue prime opere pittoriche e vince il concorso accademico Lana.
L’anno seguente ha l’occasione di visionare opere di Matisse e Cezanne; di quest’ultimo studia attentamente la sua forma-colore.
Per motivi economici, nel 1916 lavora per un paio di anni come disegnatore presso il Genio Civile di Roma.
Sono dei primi anni venti le sue più importanti opere figurative; nel 1922 espone alla Biennale veneziana ed incomincia ad avere anche un certo successo commerciale. Il suo Tram, ora esposto alla Galleria di Arte Moderna di Roma, riscuote grande successo alla Biennale del 1924.
Nel 1927 si sposa con la scultrice Adriana Bernardi, insegna pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove partecipa nuovamente alla Biennale e nel 1928 e presenta il suo importante testo La Giudecca.
Continua a scrivere e a pubblicare riflessioni sulla sua ricerca pittorica, espone a Firenze e nuovamente alla Biennale di Venezia, che nel 1935 abbandona per Bologna, dove insegna all’Accademia di Belli Arti.
Nel 1937 a New York viene pubblicata la sua prima monografia e a Bologna il Bollettino d’Arte. In questo periodo elabora il simbolismo antinaturalista del sintetismo.
Durante la seconda guerra mondiale inizia a comporre versi di poesia, che però pubblicherà solo alla fine degli anni 50, e continua a scrivere di arte; nel primo dopoguerra si dedica anche alla grafica con una serie di litografie.
Espone poi nuovamente alla Biennale di Venezia, dove ha ora una sala personale, partecipa al movimento spaziale di Lucio Fontana e alla mostra Twentieth-Century Italian Art.
I cicli tematici, da sempre alla base della ricerca pittorica di Guidi, ricorrenti durante gli anni ’50 e primi anni ‘60 sono Angoscia, Figure nello spazio, Marine, Teste, Marine, Architetture umane, Riflessioni del tempo, Tumulti, Architetture Cosmiche. Successivamente altri cicli saranno dedicati all’Albero, Figure Agitate, Figure Inquiete, Branco da branco, l’Uomo e il Cielo.
In campo poetico pubblica nel 1967 la raccolta La Ragione di Essere, nel 1979 l’Età Improbabile, e, in collaborazione con il pittore Roberto Colombo, Shambariben.
Venezia lo celebra presso la Fondazione Cini per i novant’anni, che lo vedono ancora attivo fino alla sua scomparsa, avvenuta proprio nel corso di un’esposizione delle sue ultime opere alla Galleria Il Traghetto.
Le sue spoglie riposano al cimitero monumentale di San Michele, sull’omonima isola della laguna veneta.
1881 Argentan (Francia) – 1955 Gif-sur-Yvette (Francia)
Nato in Bassa Normandia, studiò architettura prima di trasferirsi nel 1900 a Parigi, sostenendosi economicamente con l’attività di disegnatore tecnico. Dopo il servizio militare provò ad entrare, ma senza successo, all’Accademia di Belle Arti; si iscrisse quindi alla Scuola di Arti Figurative.
Prima di iniziare, all’età di 25 anni, a lavorare seriamente come pittore, frequentò comunque da privatista l’Accademia per 3 anni, che egli definì come “anni vuoti ed inutili”. I suoi lavori erano all’epoca influenzati dall’Impressionismo, ad esempio il dipinto Il Giardino di Mia Madre, uno dei rari di quel periodo che successivamente non distrusse.
I successivi lavori di Legér, soprattutto disegni, mettono l’enfasi su forme geometriche, riprese poi ad esempio nel quadro Nudi Nella Foresta, a dimostrazione di una personale forma di cubismo, definita poi dalla critica Tubismo per il frequente utilizzo di forme circolari. Via via i lavori assumono forme sempre più astratte, utilizzando i colori primari oltre al bianco, nero e verde.
Il lavoro di Legèr fu influenzato dalla personale esperienza nel corso della grande guerra, durante la quale produsse numerosi schizzi di armamenti, aeroplani, commilitoni in trincea; di questo periodo sono Soldato con una Pipa e I Giocatori di Carte.
Dopo la pima guerra mondiale il “ritorno all’ordine” anche nelle arti portò Legér a dipingere figure e animali armoniosamente inseriti nel paesaggio, ispirandosi ai lavori di Rousseau, che egli aveva conosciuto nel 1909. Questi lavori si rifanno anche al Purismo, lo stile razionale fondato da Le Corbusier e Ozenfant, che apporta correttivi all’impulsività cubista; rappresentativo di questo stile Il Sifone del 1924, una natura morta ispirata ad una pubblicità del Campari.
Attratto dal cinema, Legér si dedicò a tale arte prendendo anche in considerazione l’abbandono della pittura; nel 1924 produsse e diresse l’iconico e futuristico Balletto Meccanico.
Successivamente nel 1925, influenzato dalle teorie di Le Corbusier, realizzò il primo dei suoi “dipinti murali”, astratte zone di piatti colori che sembrano recedere o avanzare.
Verso gli anni ‘30 le forme organiche e irregolari assumono sempre più importanza nel lavoro di Legér, come ne Le Due Sorelle del 1935 e nelle svariate versioni di Adamo e Eva.
Durante la Seconda guerra mondiale Legér visse negli Stati Uniti, insegnando a Yale e dipingendo opere ispirate dalla sovrapposizione di elementi naturali e meccanici (L’Albero nella Scala, Paesaggio Romantico, Tre Musicisti).
Dopo il soggiorno americano tornò in Francia nel 1945, si iscrisse al Partito Comunista e smise in parte l’astrattismo, dipingendo figure di tuffatori, muratori, acrobati e scampagnate. Negli anni prima della sua morte insegnò a Berna, disegnò mosaici e vetrate e dipinse fra l’altro la serie La Grande Parata.
Morì nella sua casa nel 1955.
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“L’arte astratta apparve come una completa rivelazione, quindi fummo in grado di considerare la figura umana per il suo valore plastico e non sentimentale”. (Fernand Leger)
1967 Trento
Lome è il nome d’arte di Lorenzo Menguzzato, nato a Trento dove vive e opera in alternanza con Dolcè in provincia di Verona, nella sua veste di curatore del progetto artistico Bosco dei Poeti.
Nel 1983 frequenta a Venezia la Scuola Internazionale di Grafica con Riccardo Licata; si diploma quindi alla locale Accademia di Belle Arti, studente del corso di pittura tenuto da Emilio Vedova; la tesi che presenta è su Giulio Turcato.
Nel 1989 il Comune di Trento gli assegna una borsa di studio per poter frequentare il laboratorio dell’incisore e stampatore Giorgio Upiglio a Milano.
Nel 1996 vince i premi La Colomba a Venezia e il premio A. Volpi d’arte contemporanea a Pisa.
Innumerevoli sono le mostre alle quali partecipa, sia Italia sia all’estero, fra le quali in Trentino Alto Adige il Palazzo delle Albere e la Galleria civica d’Arte Contemporanea entrambe di Trento, il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea (MART) di Trento e Rovereto, il Museo Diocesano e il Palazzo Libera a Villa Lagarina, il Museo d’Arte Moderna e Castel Mareccio di Bolzano.
Fuori regione ha esposto al Museo Casabianca di Malo in provincia di Vicenza, il Museo Parisi Valle di Maccagno in provincia di Varese, il Museo d’Arte Moderna di Gazoldo degli Ippoliti in provincia di Mantova, la Fortezza da Basso a Firenze.
Fra le mostre all’estero ricordiamo in Austria Salisburgo (personale al Traklhaus) e Klagenfurt (Stigt Viktring), in Portogallo Coimbra (Museu da Ciencia Universidade de Coimbra), in Spagna Santiago de Compostela (Centro Galego de Arte Contemporanea) e oltreoceano Toronto (Museum of Ornamental Post).
In collaborazione con il critico d’arte e poeta Luigi Serravalli e la poetessa Alda Merini ha realizzato diversi Libri Oggetto.
Nel 2005 vince il Premio Telecom Italia Contagiare Bellezza dalle mani del presidente Umberto Eco.
1886 Trento – 1919 Roma
Nato a Trento da famiglia modesta – il padre Costante è fornaio – può iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Venezia nel 1904 grazie all’interessamento dell’imprenditore, politico e mecenate Antonio Tambosi, che viene a conoscenza delle doti artistiche del giovane Umberto.
A Venezia studia i grandi pittori, fra i quali Tiepolo, il Tintoretto e Tiziano. Nel 1907, ottenuto il diploma, si trasferisce a Roma dove si iscrive ai corsi serali della scuola serale di nudo.
Di indole solitaria e meditabonda, Moggioli si dedica in questo periodo alla pittura di paesaggi. Espone poi, nl 1909, alla Biennale di Venezia; sull’isola i Burano partecipa con altri artisti alla decorazione di vari pannelli dei Giardini di Castello. Insieme alla moglie, nel 1911 si trasferisce sull’isola, dove ha modo di conoscere vari pittori, fra cui Rossi e Casorati, e il critico nonché direttore di Ca’ Pesaro Barbantini.
Sono di questo periodo alcuni dei sui dipinti giudicati dei capolavori quali Il ponte verde del 1911, Cipresso Gemello del 1912 e Primavera a Mazzorbo del 1913.
Nel 1912 espone con una personale a Ca’ Pesaro e negli anni successivi a Roma.
Legato a Cesare Battisti da una profonda amicizia, nel 1915 lo segue arruolandosi come volontario nella Legione Trentina; per la sua abilità di disegnatore è destinato al reparto cartografico sul fronte della Vallagarina. L’anno successivo, colpito da una grave malattia, viene riformato.
Durante il periodo di convalescenza riprende a dipingere, ritraendo le colline del Lago di Garda e dei dintorni, influenzato dai colleghi pittori Garbari e Rossi.
Sul finire del 1916 si trasferisce nuovamente, questa volta a Roma, stabilendosi in un atelier a Villa Strohl. Entra in contatto e lavora con Antonio Rizzi alla realizzazione di cartoni per opere musive del Monumento a Vittorio Emanuele.
L’attività artistica di Moggioli è ora molto intensa e variata: i colori sono più chiari e luminosi e predilige soggetti di figure, interni e paesaggi quasi privi di orizzonte.
Colpito dalla famigerata febbre spagnola, si spegne alla giovane età di trentadue anni a Roma, il 26 gennaio del 1919.
Venezia lo celebra quel medesimo anno con l’esposizione di opere sia presso L’Accademia sia con una personale a Ca’ Pesaro; sempre Venezia, la Biennale del 1920 gli dedicherà un’ampia retrospettiva.
Il Mart di Rovereto espone alcuni fra i suoi lavori in mostra permanente.
1915 – 2013 Soraga (TN)
In valle era noto a tutti come “Igi Pitor”, spirito libero e anima impressionista con il cavalletto in spalla, viaggiatore instancabile e sognatore a modo suo, come tutti i sognatori, i funamboli e i prestigiatori.
Nato a Soraga, allora terra austriaca – come amava ricordare – e cresciuto tra campi e prati di montagna, Igi ha vissuto numerosi cambiamenti storici e sociali che hanno trasformato radicalmente il suo habitat culturale e artistico portandolo, in quasi 100 anni, a conoscere e ad affrontare tutti i pieni e i vuoti della vita e dell’esistenza.
“I colori sono 3 – diceva- il resto è tutto un caleidoscopio” e ridendo tornava alle sue cose che poi erano le fughe a Venezia o a Fuciade dall’amico Sergio, o in giro per l’Italia e l’Europa con qualche Mostra, o semplicemente a spasso con la sua Lambretta, i suoi colori e le sue tele. Chi ha conosciuto l’Uomo oltre l’Artista sa che Igi creava le sue opere a due mani, l’una quella dell’utilità, del barcamenarsi quotidiano di chi sceglie la pittura paesaggistica come stile di vita, l’altra, la più curata, quella di un cuore che amava e una mente che sognava sorretta da un pensiero nitido, affascinante e alla fine gioioso.
Nel suo cammino artistico ha prodotto oltre 5.000 opere, perlopiù paesaggi dolomitici ma anche mare e gondole, ritratti, nature morte e altro. Sui prati alti fissava ad olio il paesaggio alpino come lo vedeva da anni tanto che alla fine dipingeva a memoria, sorridendo, sapendo che lassù, almeno per lui, nulla sarebbe cambiato, mai.
E oggi, nelle case di Fassa ma non solo, i suoi lavori ricordano i colori della freschezza, di quando vivere e stare all’aria era una scelta fatta aldilà di ogni ragione e di ogni male, come un gioco, un regalo o un canto libero.
Alla fine Igi se ne è andato cantando dopo aver salutato tutti a modo suo, come sempre, come usava fare lui. Dopotutto, i colori sono ancora 3 e il resto è più che mai, più che mai, tutto un caleidoscopio.
1919 Malles Venosta (Bz) – 1986 Milano
Nasce da padre sudtirolese e madre austrica, l’ultimo di dieci fratelli di una famiglia molto povera. Il padre, di mestiere lattoniere, muore quando Karl ha solo quattro anni.
Terminata la scuola dell’obbligo, dipinge nel tempo libero dopo il lavoro come garzone presso un imbianchino di Malles; si trasferisce in seguito presso un verniciatore di Bressanone, dove entra in contatto e successivamente lavora con il pittore e restauratore austriaco Fasal. Da questi apprende i segreti dell’affresco e migliora tecnicamente in pittura.
Chiamato alle armi per combattere con l’Italia nella seconda guerra mondiale, ottiene presto però il congedo optando per la cittadinanza tedesca; prima di partire per la Germania gli vengono commissionati diversi dipinti di masi, che i loro proprietari avrebbero portato con sé in Germania in quanto anch’essi optanti per quel paese.
Si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Berlino, che però non riesce a frequentare, chiamato alle armi nell’esercito tedesco; nel 1943 chiede e ottiene un congedo per motivi di studio e per un semestre è finalmente a Berlino in Accademia.
Alla fine della guerra torna nella sua valle e subito dopo, nel 1946, organizza la sua prima mostra personale.
Frequenta poi in successione le Accademie di Firenze e di Brera a Milano.
Alla fine degli anni ’40 è per un intero anno a Parigi, dove studia con il pittore e illustratore André Lothe.
Torna poi in Italia a Firenze, Milano e poi in Alto Adige, dove affresca varie chiese, fra le quali quelle di Prato allo Stelvio e Malles.
Tornato a Parigi nel 1950, vi incontra la futura moglie Marie Josephe e svolge il lavoro preparatorio del monumento ai caduti di Naturno e Malles. L’opera viene danneggiata da ignoti e poi nascosta per intervento della Chiesa, che non gradisce l’opera, per essere poi restaurata solo nel 1968.
Segue un periodo trascorso in Brasile, dove espone a San Paolo e dove vede la luce la sua primogenita. Nel 1955 torna a Bolzano per realizzare gli affreschi della sala consiliare della Provincia; per un triennio torna poi in Brasile e qui organizza delle esposizioni e realizza un affresco nella sede del quotidiano Folha da Manha.
Tornato definitivamente in Europa nel 1958, lavora in Alto Adige, Francia e Austria. Espone senza successo a Milano nel 1963 e realizza poi l’impegnativo ciclo di affreschi della Cappella del Ponte Europa, l’impressionante viadotto austriaco sulla Wipptal, fra il Brennero e Innsbruck.
Nel 1976 è insignito della Medaglia per le Scienze e per le Arti, conferitagli dall’Austria.
Nel 1978 si trasferisce nuovamente con la famiglia a Parigi e poi, a seguito di malattia, per cure nel sud della Francia. Nel piccolo paesino di Cipières trascorre il resto della vita ad eccezione di brevi intervalli a Parigi, nella sua valle a Burgusio e Milano, dove si spegne il giorno 8 dicembre del 1986.
1957 Alma Ata (Kazakistan)
Compie i primi studi d’arte ad Abay, nel distretto di Karagandy, presso la locale Facoltà di Arte Grafica dell’Istituto Pedagogico.
Fino allo smembramento dell’Unione Sovietica del dicembre 1991 non partecipa ad alcuna mostra né si iscrive all’Unione degli Artisti.
Sul finire degli anni ’80 contribuisce alla decorazione del museo dedicato a Nikolay Rerih, pittore, scrittore ed archeologo russo a Ujmon, nell’omonimo bacino dei Monti Altaj.
Le prime esposizioni alle quali prende parte risalgono agli anni fra il ‘95 ed il ‘97, ospite delle gallerie sotto la direzione del Museo Kosteevo di Arte Repubblicana, denominate “Parate del Kazakistan”.
L’esposizione di livello internazionale denominata La Canzone del Coachman lo vede co-protagonista del ’98 nella capitale Alma Ata.
Trasferitosi nel frattempo a Lipestk in Russia, vi inaugurerà la sua prima mostra personale dal titolo Arte Non Venale; quadri e composizioni di vario genere sono esposti nel proprio appartamento.
Gli anni fra il 2002 ed il 2005 lo vedono partecipare ed essere pluripremiato a svariate mostre competitive titolate Artista-Insegnante.
Oggi la sua produzione artistica prosegue, affiancata dalla carriera di insegnante presso un istituto di Lipetsk.
Diverse collezioni di privati in Russia, Kazakistan, Italia e Germania ospitano le sue opere.
1902 – 1984 Bologna
Nasce a Bologna, dove espone per la prima volta all’età di 25 anni, dopo essersi diplomato alla locale Accademia di Belle Arti; la mostra è organizzata dalla Società Promotrice per le Belle Arti Francesco Francia. Un anno dopo questa prima mostra personale e per ben altre 14 edizioni, sarà ammesso alla Biennale di Venezia.
Nel 1929 vince il Premio Baruzzi, l’anno successivo è chiamato ad insegnare presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, essendo assurto a notorietà grazie alla partecipazione alla Mostra Internazionale di Barcellona; nei primi anni 50 assumerà anche la direzione dell’Accademia.
Definito il maestro frescante per la sua straordinaria tecnica dell’affresco, Saetti realizza fra l’altro nel 1958 la Sacra Famiglia presso l’Università di Padova e nel 1974 il Colloquio con l’angelo, affrescato su tela alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna.
Saetti realizza importanti affreschi a parete in edifici sacri come Sant’Eugenio a Roma e Santa Maria delle Grazie a Bologna; altrove utilizza invece la tecnica dell’affresco su tela, ad esempio Madre veneziana, opera del 1937, esposta alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma.
Nel 1970 il governo giapponese lo invita ad intervenire, quale stimato specialista dell’affresco, nella conferenza tenutasi all’università di Tokio.
Saetti spazia anche in altre branche della grafica quali disegni, incisioni, litografie e si cimenta anche nella decorazione su vetro e nella realizzazione di mosaici.
Nella veste di pittore d’arte sacra partecipa a diverse rassegne e nel 1961 a Firenze, nella chiesa di San Giovanni Battista esegue un rilievo a tessere in pasta vitrea.
Il 1971 vede la pubblicazione della sua monografia ad opera di Giuseppe Marchiori.
Prende parte a grandi rassegne internazionali che la Biennale di Venezia organizza nelle capitali dell’est Europa e Vienna. Sue mostre antologiche sono proposte a Venezia nel 1975 e a Firenze 1979; sempre a Firenze, dopo la sua morte, una nuova antologica viene organizzata da Palazzo Strozzi.
I principali musei italiani, fra i quali il Museo d’Arte Moderna di Bologna (Mambo) e il Museo Novecento di Firenze, ospitano le sue opere, che figurano anche in importanti musei all’estero.
Importanti mostre antologiche dedicate alla produzione grafica di Saetti sono organizzate presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna negli anni 1974 e 1981; sempre nell’81 al Palazzo Pretorio di Prato vengono esposti mosaici di grandi dimensioni.
Un omaggio gli viene tributato dalla Galleria 56 di Bologna in occasione del centenario della nascita nel 2002; a cavallo fra il 2004 e il 2004 Rossana Bossaglia cura l’antologica Bruno Saetti 1902-1984. Tra intimismo e sublimazione.
Saetti dipinge nudi femminili, maternità, paesaggi, non tralasciando il simbolismo, dipingendo ad esempio figure di angeli. Il severo rigore compositivo è alla base di un realismo espressionista che rifugge dalle avanguardie artistiche.
Si spegne nel 1984 all’età di 82 anni.
Homs (Libia) 1934 – Roma 1998
Nasce a Homs, città dell’allora Libia italiana, dove il padre è impiegato del ministero della Pubblica Istruzione.
Artista eclettico, oltre che pittore è anche regista, attore e musicista rock. Esuberante e prolifico, è definito artista maledetto a causa della sua dipendenza dalle droghe.
Sul finire degli anni ’50 prende parte al movimento artistico della Scuola di Piazza del Popolo, a fianco fra gli altri di Franco Angeli e Tano Festa; il gruppo di artisti si riunisce in un noto bar di Roma, il Caffè Rosati situato proprio a Piazza del Popolo. Fra gli altri intellettuali che frequentano il locale si ricordano gli scrittori Pasolini e Moravia ed il regista Fellini.
È del 1959 la sua prima mostra personale, alla Galleria Appia Antica di Roma. Da allora Schifano si impone nel panorama culturale mondiale grazie ad una produzione artistica molto intensa.
Sempre a Roma Il gruppo espone in collettiva nel ’60 alla Galleria La Salita, mentre l’anno successivo Schifano espone personalmente presso la Galleria La Tartaruga.
In un suo primo viaggio a New York conosce Andy Warhol, frequenta la sua Factory e partecipa attivamente agli eventi promossi dal New American Cinema Group.
A seguito di questo viaggio è chiamato a partecipare alla mostra New Realists assieme a Roy Lichtenstein e Warhol e altri artisti emergenti della Pop Art e del New Realism.
Di ritorno da New York, partecipa a mostre a Parigi, Milano e Roma; nel 1964 è ospitato alla XXXII Esposizione Internazionale d’Arte. Sono di questo periodo i quadri Paesaggi Anemici e i primi film in 16 mm Round Trip e Reflex, grazie ai quali si distingue come figura prominente del cinema sperimentale italiano.
A Roma, oltre a frequentare il poeta Ungaretti e il regista Ferreri, conosce Ettore Rosboch, con cui condivide la passione per la musica; i due amici vanno spesso a Londra, dove conoscono i Rolling Stones. Il loro pezzo Monkey Man del ‘69 è dedicato a Schifano.
Dopo le sue partecipazioni alle Biennale di San Marino e di San Paolo del Brasile nel 1965, si dedica al cinema collaborando nel 1967 con Marco Ferreri per L’Harem. Grazie a Ferreri, Schifano produce la Trilogia per un massacro, formata dai tre lungometraggi Satellite (1968), Umano non umano (1969), e Trapianto, Consunzione, Morte di Franco Brocani (1969).
Achille Bonito Oliva, nella mostra Vitalità nel negativo nell’arte italiana 1960/70 del 1971 inserisce alcuni quadri di Schifano. Influenzato dagli artisti nordamericani come Jasper Johns utilizza nelle sue opere numeri e lettere come singoli elementi.
Mario Schifano è molto conosciuto anche per le serie Propagande, dedicate ai marchi Coca-Cola ed Esso; i Paesaggi anemici, le Vedute interrotte, L’albero della vita e i Campi di grano sono limpidi esempi di Pop Art.
La passione per la fotografia lo stimola a realizzare opere miste, le tele emulsionate, immagini fotografiche sulle quali interviene con la pittura in modo non invasivo.
Schifano è pioniere nell’utilizzo della tecnologia per la sua produzione artistica; è tra i primi ad usare il computer, elaborandone le immagini su tele emulsionate (le tele computerizzate).
Autore molto prolifico di opere all’apparenza semplice, è preso di mira dai falsari, soprattutto dopo la sua scomparsa per infarto all’età di 64 anni.
1925 Mezzano di Primiero (Italia) – 2004 Casez (Italia)
Nato Riccardo Antonio Svaizer, i suoi primi lavori sono degli affreschi dipinti all’età di 11 anni e tutt’ora visibili. Prima di iscriversi nel 1945 all’istituto d’Arte dei Carmini di Venezia frequenta i corsi dell’Istituto Tecnico di Belluno.
Nei primi anni ’50 si trasferisce in Costa Azzurra per conoscere Picasso e frequenta fra gli altri anche Chagall, Legér, Le Corbusier, Cocteau e il poeta Paul Eluard.
Di ritorno in Italia e dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, insegna per un breve periodo in Trentino, ma rinuncia dopo un mese, chiamato da Bruno Saetti che lo vuol come assistente all’Accademia; vi insegna pittura e frequenta le avanguardie dell’ambiente culturale veneziano ricco di nomi quali Maderna, Nono, Stravinskij, Vittorini, Quasimodo, De Pisis e molti altri.
Nel 1960 lascia l’Accademia di Venezia e si stabilisce in Costa Azzurra, dedicandosi all’art della ceramica.
Negli anni successivi nascono i primi lavori murali, fra i quali Apoteosi della Tecnica per l’Istituto Editoriale di Milano e pannelli acrilici ed affreschi per due alberghi di San Martino di Castrozza.
Dopo il matrimonio del 1963, dal quale nasceranno le figlie Barbara e Monica, inizia una proficua collaborazione con l’azienda Ceramica Pagnossin di Treviso, inaugurata con il bassorilievo per le terme di Levico e proseguita fino alla seconda metà degli anni ’70.
Nel 1978 realizza il concetto di arte totale (architettura-pittura) con il progetto degli interni del ristorante Da Silvio di San Michele all’Adige: dai pannelli decorativi alle pareti, ai corpi illuminanti, a vari dispositivi ed attrezzature quali ad esempio le pietre ollari per la cottura al tavolo. Il ristorante è ora annoverato fra i beni culturali del Trentino. L’anno precedente aveva realizzato, sempre in loco, un grande pannello per la sala meeting dell’Istituto Agrario.
Negli anni ’80 il poliedrico artista realizza progetti di vario genere, fra i quali ricordiamo le 3 facciate del municipio di Carros nel cantone di Nizza, ove sperimenta una nuova tecnica a base di ossidi e cemento.
Numerosi sono i premi ed i riconoscimenti ricevuti da Schweizer, fra i quali la vittoria nella gara internazionale per le decorazioni del Palazzo del Cinema e dei Congressi di Cannes nel 1982, la medaglia d’oro alla 10° Biennale, il Premio Murano, il Cavalierato della Repubblica, conferitogli nel 2001, nonché l’affiliazione alle prestigiose Accademie trentine degli Agiati e degli Accesi.
Si spegne nel settembre 2004 a Casez, in Val di Non.
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“Non sarebbe esatto, anzi limitativo, incasellarti soltanto dentro al settore della pittura.
Sotto questo aspetto del tuo lavoro potresti essere definito artista-pittore come usano dire i francesi; come del resto io ritengo che sia quando si tratta di persone di autentico talento”
Testimonianza di Bruno Saetti, da Riccardo Schweizer, collana “Artisti Italiani”, Nuovi Sentieri Editore.
Arco (Tn) 1858 – Monte Schafberg (Grigioni) 1899
Pittore tra i massimi esponenti del divisionismo, nasce ad Arco (Tn), all’epoca sotto la dominazione austriaca, da una famiglia in gravi ristrettezze economiche.
All’età di sette anni, morta la madre, viene affidato alla sorellastra Irene a Milano. Qui, senza una vera e propria famiglia, vive una vita randagia che lo porterà ad essere arrestato e rinchiuso in riformatorio nel 1870, ove rimarrà per ben tre anni.
Affidato successivamente al fratellastro Napoleone, lavora come garzone presso la sua bottega a Borgo Valsugana (Tn); appassionato di pittura e artisticamente dotato, ritorna a Milano nel 1874 dove frequenta per tre anni i corsi serali dell’ Accademia di Belle Arti di Brera.
Grazie alle entrate derivanti dal suo lavoro presso una bottega artigiana e dall’insegnamento del disegno, riesce a frequentare poi per due anni i corsi regolari a Brera , stringe amicizie con artisti locali fra i quali il pittore Emilio Longoni e lo scrittore Carlo Morenzi ; espone a Brera e, notato dalla critica, ottiene i suoi primi riconoscimenti.
Fra i suoi primi lavori, influenzati dal verismo lombardo, spiccano le vedute milanesi Il Naviglio a Ponte San Marco e Il Coro della Chiesa di Sant’Antonio.
Nel 1881 si trasferisce in Brianza, lavorando grazie anche al sostegno di Vittore Grubicy, conosciuto anni prima a Milano; collabora con Longoni e sviluppa forme espressive originali e molto personali.
Le opere di questo periodo sono di ispirazione contadina e vedute brianzole; nascono i primi capolavori come La Raccolta dei Bozzoli (1882), Zampognari in Brianza (1883) A Messa Prima (1885).
Arrivano intanto i primi riconoscimenti anche a livello internazionale con medaglia d’oro ad Amsterdam per Ave Maria a Trasbordo e ad Anversa per La Tosatura delle Pecore; il successo definitivo di questo periodo naturalista arriva con la composizione di Alla Stanga (1885), oggi visibile presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Nel 1886 si trasferisce in Svizzera, a Savognin nel Canton Grigioni; qui si avvicina ai movimenti del divisionismo e del simbolismo, dipingendo figure femminili con una particolare attenzione al tema della maternità (Le Due Madri del 1889 e L’Angelo della Vita del 1895). Segantini riesce però a far coesistere naturalismo e simbolismo come sarà ad esempio in Trittico della Natura.
Nel 1894 il pittore si trasferisce da Savognin a Maloja presso St. Moritz, in Alta Engadina, alla ricerca di una vita solitaria e mistica. Qui, ispirato dal maestoso paesaggio alpino, concepisce l’ambizioso progetto per un trittico per il padiglione dell’Engadina all’Esposizione Universale di Parigi del 1900; ritenuta poi troppo costosa e venuto a mancare il sostegno economico degli albergatori della valle, l’opera, ridimensionata, diventa il famoso Trittico della Natura, esposto nel padiglione dell’Italia.
A soli 41 anni, nel 1899, il pittore muore a causa di un improvviso attacco di peritonite, mentre sta dipingendo sul monte Schafberg, sopra Pontresina.
“Se si volesse discorrere seriamente d’arte, per farsi ben capire ed evitare equivoci, sarebbe necessario far precedere un breve trattato di psicologia. Che altro è l’arte, l’arte bella, vera, elevata, se non l’immagine fotografica, il misuratore che segna il grado di perfezione dell’anima umana?” (Giovanni Segantini)
1924 Ortisei (BZ)
Figlio d’arte, il padre è scultore in ferro, la madre figlia del noto pittore Josef Moroder Lusenberg. Fin da bambino rivela la sua naturale disposizione verso il disegno e la pittura. Dopo gli studi e l’apprendistato a bottega, negli anni 1950 apre il suo studio di scultura a Ortisei e nel giro di 20 anni di duro lavoro incomincia ad attirare l’attenzione di critici d’arte che presto lo porteranno ad esporre le sue opere nelle principali gallerie e musei in tutto il mondo.
Nel tempo poi non sono mancate le pubblicazioni, i premi, i filmati, la fama che non ha mai condizionato né la libertà né la personalissima creatività dell’Artista, dell’Uomo, del Maestro Vallazza.
Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire. Non c’era nessuno.
Era la porta della bottega impolverata di Adolf Vallazza, mani grandi, occhi profondi, entusiasmo e passione, il viso da ragazzo per sempre. All’inizio non fu facile per lui abbandonare la scultura tradizionale per dedicarsi a cose nuove, mai viste da quelle parti, in una Val Gardena ancora chiusa alle avanguardie artistiche, chiusa nei sicuri confini dell’arte sacra o ludica o turistica.
Ma Adolf scelse il coraggio, tracciò i suoi disegni che poi diventarono sculture e ben presto riempì case, chiese, teatri e luoghi pubblici con enormi figure plastiche che guardavano al futuro, opere d’arte chiamate ad esprimere per sempre la profondità e l’incandescenza dell’essere e dell’esistere ovunque, in ogni luogo e in ogni tempo.
Poi, per primo, recuperò le travi e le assi dei vecchi masi in disuso o in demolizione e diede loro nuova forma e nuova vita. Inventò il suo personale stile nel comporre figure dinamiche straordinarie dove le dimensioni non era lui a sceglierle ma la qualità della conservazione e della vita dei legni maturati in centinaia d’anni nelle stalle, nei fienili e nelle case gardenesi. Adolf guardava i legni per lungo tempo, li sistemava lì dove poteva vederli e guardarli, poi disegnava, poi scolpiva, tagliava, intagliava, acquerellava e infine, come un bambino felice, assemblava, incastrava, univa, stretto stretto, con grazia, pazienza, creatività e armonia.
Fino a pochi anni fa Adolf frequentava quotidianamente la sua bottega e lavorava, si divertiva, continuava a farlo poiché – diceva – “un artista dà tutto ciò che è e che ha, fa ciò che sente di voler fare, prima di tutto è e rimane un Uomo generoso”.
Ora a 97 anni passa le sue giornate nella sua casa di Ortisei tra i suoi ricordi più cari. Ogni giorno incontra qualcuno, ogni giorno guarda il suo sentiero fatto essenzialmente di armonia, di bellezza e di vicinanza. Le sue opere gli parlano da ogni angolo del mondo e lui ascolta, risponde e sorride poiché sa che chi accoglie un pensiero non riceve qualcosa, ma Qualcuno. Ogni volta, tutte le volte, sempre.
1907 Brunico (Bz) – 1999 Trento
Il padre, per tentare la fortuna in America, abbandona il piccolo Othmar in tenera età, affidandolo all’orfanotrofio di Bressanone, non lontano da Brunico ove era nato; entrambi i centri, come tutto l’attuale Trentino-Alto Adige erano allora sotto la dominazione asburgica.
A 19 anni si trasferisce ad Ortisei in Val Gardena, dove frequenta la locale scuola professionale. Il direttore della scuola prof. Sella apprezza molto le sculture del giovane allievo.
Alla conclusione degli studi nel 1928 si trasferisce presso Emil Demetz, un suo amico scultore residente ad Acqui, in Piemonte. Tramite le conoscenze di Demetz, dopo un paio d’anni trova la possibilità di trasferirsi nella capitale, dove espone per la prima volta. A seguito di una recensione molto positiva sulla rivista “Oggi e Domani”, anche Mussolini visita la mostra. Colpito dalle opere di Winkler, il duce acquista un suo lavoro e nel 1932 convoca lo scultore a Palazzo Venezia per commissionargli il proprio ritratto, una scultura in legno.
Sempre nel 1932, a seguito di un incontro presso l’ambasciata tedesca di Roma, il ministro della propaganda nazista Goebbels lo invita a Berlino. Cinque anni più tardi è ad Oslo, dove incontra il pittore Edvard Munch.
Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale torna in Italia, dove decide di rimanere, insegnando nel 1943 per un breve periodo ad Ortisei; sarà licenziato a causa del carattere giudicato inadatto. Segue il trasferimento a Trento con un impiego presso la locale Soprintendenza alla Belle Arti.
Si trasferì allora nel Trentino per lavorare presso la Soprintendenza alla Belle Arti di Trento, dove realizzò la sua prima Via Crucis per la chiesa di San Udalrico a Lavis; qui lavora anche come interprete, attività che lo avrebbe portato a Montecassino, non fosse stato per la sua fuga in Val di Rabbi. Qui scolpisce degli altari lignei; l’arte sacra lignea sarà anche il tema ricorrente del suo lavoro, tra cui molte Via Crucis. La chiesa di Santa Maria Bambina nell’Istituto omonimo di Trento ospita forse la più famosa di queste.
Abbandonata l’arte sacra lignea per la scultura in bronzo di tema profano, realizza nei secondi anni ’50 e primi anni ‘60 varie opere fra le quali il ciclo di bronzi sui I lavori fondamentali dell’Uomo a Bolzano, il monumento a Padre Haspinger a San Martino in Casies, il monumento ai Caduti a Bressanone. Il cimitero di Trento ospita invece due sue opere in marmo: i busti di Cesare Battisti e Alcide Degasperi.
Durante gli anni della contestazione sessantottina esegue centinaia di schizzi dei protagonisti, gli studenti della neonata facoltà di Sociologia di Trento. Nello stesso periodo le sue opere grafiche si ispirano anche alla figura di Michael Gaismair, leader delle guerre contadine del ‘500.
A Strasburgo, nella sede del parlamento europeo, viene esposto nel 1994 il ciclo Storia delle Genti Trentine. Successivamente ad Arco (Tn), la medesima mostra sarà inaugurata presente l’arciduca Otto d’Asburgo.
E’ del 1998 il dono fatto dall’artista alla città di Assisi, colpita dal terremoto, dell’opera bronzea San Francesco straziato.
Othmar Winkler si spegne a Trento l’anno successivo, ma viene sepolto nel piccolo cimitero di Velturno (Bz), suo paese di adozione, dove si era trasferita la madre.
L’arte non è solo nelle opere. È alla base delle scelte, è nell’aria che si respira, ogni giorno, all’Art hotel
Oltre agli autori cui le stanze sono dedicate, il nostro Art hotel ospita molti altri artisti. Le loro opere arricchiscono le sale comuni e i luoghi di passaggio creando angoli accoglienti o luoghi meditativi in cui soffermarsi a goderne. Ne citiamo qui alcuni che, per vicinanza, contribuiscono costantemente a mantenere viva l’atmosfera artistica della nostra casa:
Feliciano Costa “Parolot” – scultore moenese. Da una sua scultura in legno nasce il logo del nostro Art hotel.
Luigi Pederiva – pittore fassano e grande amico di famiglia cui è dedicata una stanza. Ma qui viene nominato perché il nome della sua casa a Soraga “Locanda degli Artisti” è diventato, ora, il nome della nostra.
Jacopo Mazzonelli, Simone Turra e Matthias Sieff – scultori trentini le cui opere caratterizzano la facciata dell’Art’hotel e arricchiscono le sale interne.
Alberto Detomas “Albo” – pittore fassano il cui dipinto risalta sulla facciata principale. Suo anche l’omaggio a Depero nella stanza dedicata al futurista trentino.
Inge Detomas – le sue sculture in bronzo arricchiscono il soggiorno e la sala da pranzo.
Pier Orler – Anche la fotografia è arte e Orler ne è valido interprete. I suoi scatti, nel nostro sito web, esprimono l’essenza della Locanda degli Artisti e la sua Snowart è in mostra all’entrata.
Via Roma, 23 | Canazei | Trentino | Dolomiti | Italia
Tel. +39 0462 888023 | Cell. +39 340 4775508 | Email: info@locandadegliartisti.art
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